L'ESERCITO ITALIANO NEL DODECANESO: 8 SETTEMBRE 1943 - La guerra italo- turca 1911- 1912 -


Nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1911, Giolitti inviò all’Impero ottomano un ultimatum di sole ventiquattro ore, nel quale chiese l’immediato ritiro delle truppe ottomane presenti in Tripolitania e Cirenaica. Era sua intenzione gestire la faccenda come una libera scelta di politica estera che dopo lo scadere dell’ultimatum, 29 settembre 1911, sarebbe diventata una guerra coloniale. L’Italia mobilitò un corpo d’armata organizzato in due divisioni al comando del generale Carlo Caneva, il quale portò l’afflusso di uomini nel corso del conflitto da 20.000 soldati fino quasi al doppio[1]. Il comandante delle operazioni navali, ammiraglio Faravelli, intimò la resa alla piazzaforte di tripoli il 2 ottobre 1911. Non avendo ricevuto alcuna risposta dalla guarnigione ottomana, iniziò le operazioni di guerra a comando della 2° squadra composta dal Benedetto Brin, Emanuele Filiberto, Garibaldi, Ferruccio, Coatit, Re Umberto, Sardegna, Sicilia, Carlo Alberto, della divisione Navi- scuola, la Varese, non partecipò perché impegnata nei rifornimenti, ma l’indomani l’entrata nel avamporto cannoneggiò e distrusse il forte Hamidiè, e poi aprì il fuoco contro le strutture fortificate, dalle ore 15:30 il bombardamento si fermò verso la sera per poi riprendere il mattino seguente, fino alla completa inutilizzazione dei forti. Fu così che il 5 ottobre il presidio turco abbandonò la città lasciandola occupare dalle forze da sbarco italiane, 1700 uomini in tutto, sotto il comando del capitano di vascello Umberto Cagni. Prima della partenza, gli ufficiali furono istruiti sul come comportarsi con gli arabi ossia lo Stato Maggiore dell’esercito distribuì un Manualetto per l’ufficiale in Tripolitania, il quale riportava notizie economiche, politiche e di costume, dimostrando con quale arroganza e razzismo gli italiani approdarono sul continente Africano[2]. L’11 ottobre giunsero davanti a Tripoli, prima dell’intero convoglio, i piroscafi requisiti America e Verona, i quali sbarcarono i primi due reggimenti. Già il 15 ottobre tutti gli uomini giunsero sulla zona di guerra. Il comandante in capo del corpo di spedizione, generale Caneva, si occupò immediatamente di provvedere alla sistemazione dei reparti in vista sia di un eventuale contrattacco turco sia al fine di evitare la sospensione degli affari della vita civile.

Il 5 ottobre il comandante in capo delle forze navali, al fine di raggiungere esiti positivi in poco tempo, entrò a Tobruk, intimando la resa, non accettata dall’unico forte presente. Venne aperto il fuoco e alle ore 11 fu issata la bandiera Sabauda. La conquista dell’area era di grande importanza vista la sua rilevante posizione strategica: orientata sia verso il confine anglo- egiziano che al mar Egeo. Durante la seconda guerra mondiale, avrebbe funto come tappa di collegamento per i rifornimenti provenienti dall’Italia verso il Possedimento italiano. Presbitero, venne incaricato di occupare la città di Derna, ove erano presenti prigionieri italiani recentemente catturati dai turchi. una volta lasciato a Tobruk una compagnia del 40° fanteria, si preoccupò di dar via all’operazione di liberazione dei prigionieri e occupazione del territorio. Tra il 16 e il 17 ottobre le truppe della marina italiana si scontrarono contro il presidio turco di Derna. Il supporto dell’esercito arrivò direttamente da Favignana, il quarto giorno, 19 ottobre. Con una sola mezza compagnia a disposizione e le buone doti strategiche del comandante, capitano di fregata Piero Orsini, le truppe italiane conquistarono anche la piazzaforte di Derna.

Con la collaborazione dell’esercito e dei convogli giunti da Napoli e Palermo, l’ammiraglio Aubry di preparò per l’assedio di Bengasi. Tra il 19 e il 20 ottobre iniziò l’offensiva sulla spiaggia Giuliana e nonostante le cattive condizioni del mare, la coordinazione tra esercito e marina fu esemplare, la Regia Marina riuscì a coprire i movimenti delle truppe di terra colpendo i bersagli indicati. Fu proprio in questo scontro che persero la vita i primi soldati, tra cui un ufficiale e due sottoufficiali[3].

Dopo la presa di Bengasi, il successivo obiettivo fu Homs. Anche in questa operazione la marina appoggiò con il cannoneggiamento delle spiagge lo sbarco dell’8° reggimento bersaglieri proveniente da Tripoli. Una volta giunto il 4° bersaglieri, insieme ad una batteria da sbarco, fu occupata l’altura del Mergheb, punto dominante della città a 4-5 km. L’operazione era stata decisa per il 27 febbraio e per distrarre forze al nemico fu simulato uno sbarco verso Sliten. Anche in questa battaglia, marinai e reparti dell’esercito combatterono fianco a fianco per la presa della piazzaforte[4].

Ad un mese dallo sbarco, il comandante in capo del corpo di spedizione italiano in Libia, generale Caneva, si rese conto dell’impossibilità di una facile conquista, descritta dalla stampa come la «passeggiata militare». Dopo un mese di combattimenti nelle zone di Sciara Sciat e di Henni, i comandanti si resero conto della difficoltà del territorio e della forte ostilità della popolazione. Fu così che i generali iniziarono a scaricare la responsabilità del conflitto sul governo, accusandolo di non aver studiato e impostato approfonditamente il progetto[5].

Dopo l’occupazione delle principali piazzeforti dislocate lungo tutta la costa, da Bengasi a Tobruk, l’azione della marina entrava in una nuova fase, con due compiti distinti: uno di carattere marinaresco, costituito dal continuo afflusso dei reparti, materiali e mezzi indispensabili per mantenere le zone di occupazione; l’altro prevedeva l’appoggio tattico alle manovre dell’esercito, il quale poteva contattare l’artiglieria delle navi per coprire gli spostamenti in fase di attacco, ma in alcuni casi anche la fanteria di marina partecipò ai combattimenti sul terreno con mezzi da sbarco ove fosse possibile.

Giunti al febbraio 1912 sia l’esercito che la marina riuscirono a mantenere un assetto difensivo, nelle zone di operazioni, continuando la vigilanza delle zone a rischio anche se all’interno la situazione non era ancora sotto controllo a causa delle diverse fazione presenti, inoltre la marina turca preferiva rimanere protetta all’interno dello Stretto consapevole della sicura sconfitta in caso di battaglia contro la flotta italiana, nonostante il potenziamento in corso voluto dal governo ottomano e affidato all’ammiraglio inglese Sir Douglas Gamble, per questo motivo preferiva far uscire allo scoperto piccole unità per sporadici bombardamenti[6]. Ma prima di poter operare in quelle zone, la marina decise di attaccare il naviglio turco dopo aver saputo della sua presenza nel bacino del mediterraneo orientale, si trattava di due navi, la Avnyllah una corazzata cannoniera di 67m, armata di 4 cannoni di medio calibro e un lanciasiluri e l’Angora una torpediniera armata di 2 cannoni e 2 lanciasiluri. L’operazione di guerra venne affidata all’ammiraglio Faravelli che, al comando del Ferruccio e del Garibaldi, si presentò, la mattina del 24 febbraio, davanti al porto libanese, intimando la resa immediata delle due navi. Dopo la mancata risposta da parte dei comandanti ottomani, alle ore 09:00 fu aperto il fuoco, la torpediniera fu silurata e affondata assieme a 50 uomini. Questo episodio portò l’Impero ottomano a proclamare lo stato d’assedio, decidendo di espellere tutti i sudditi italiani dalla Siria e minacciando di estendere il provvedimento all’intero territorio imperiale[7].

Il capo del governo, Giovanni Giolitti[8], e il ministro degli esteri,  Antonino Paternò- Castello, erano perplessi circa la situazione che si era creata, dal punto di vista politico e militare. Militarmente la situazione sul campo libico era in fase di stallo anche se le principali piazzeforti erano ormai state conquistate e presidiate dalle truppe italiane, queste non si erano spinte oltre il litorale e in tanto le fazioni rivali avevano avuto il tempo di organizzarsi e ammassarsi lungo la linea d’offensiva italiana.

Il generale Caneva venne chiamato a Roma per chiarire la situazione e senza indugio confermò la critica situazione sulla resistenza arabo-turca, più dura del previsto, inoltre un’epidemia di colera a Tripoli, riuscì a mietere numerose vittime: nei primi tre mesi di guerra furono 375, mentre in azione caddero 466 soldati, per questo motivo non si poteva ancora aspettare, bisognava agire al più presto sia dal punto di vista politico che militare.

            Nel 1912 scadeva il terzo trattato della Triplice[9] e la Germania cercò di riavvicinare l’Austria-Ungheria, all’alleata meridionale, l’Italia che cercava di prendere tempo in attesa della fine della guerra contro la Turchia. La Germania cercava questo riavvicinamento in modo tale da isolare la Francia. Fu proprio in questo caso che Giolitti fece la prima mossa politica chiedendo a Guglielmo II di fare pressioni su Vienna, perché questa cambiasse atteggiamenti verso l’Italia, portandola così a rinnovare l’Alleanza. Se l’Italia avesse tentato di modificare lo status- quo nei Balcani, Vienna stessa si sarebbe opposta fermamente. Pertanto ogni operazione militare, studiata dallo Stato Maggiore italiano, doveva essere valutata politicamente e preventivamente illustrata agli alleati.

Il lavorio diplomatico permise all’Italia di poter agire, sempre con cautela, nel margine del bacino mediterraneo orientale, ma non era facile compiere azioni limitate che avrebbero portato la Turchia ha chiedere la fine della guerra.

Furono così scartate varie ipotesi, come quella di un’avanzata nel territorio libico, al massimo si sarebbe potuto estendere il margine di influenza nelle zone già conquistate. Non si poteva bloccare Salonicco; ne prendere Smirne; tanto meno occupare Costantinopoli, perché si sarebbe potuto danneggiare il commercio marittimo internazionale; per quanto riguardava un attacco ai Dardanelli, oltre al fatto della difficoltà nell’azione, si rischiava di urtare la Russia; se si fosse spostata la mira verso l’Egeo, sarebbero intervenuti i veti degli alleati: non si potevano coinvolgere le Sporadi settentrionali, tanto meno quelle centrali, rimanevano così le Sporadi meridionali[10].

            Come testimonia uno scambio epistolare risalente al 1911, il capo di Stato Maggiore della Marina vice ammiraglio Rocca Rey e il capo di Stato Maggiore dell’Esercito Alberto Pollio iniziavano a vagliare la possibilità di pianificare un’azione militare direttamente nelle Sporadi settentrionali oppure su Smirne o Mitilene.

Un’altra proposta venne fatta verso metà marzo dal comandante in capo, ammiraglio Faravelli, il quale proponeva di condurre più operazioni, anche nell’Egeo, in modo tale da disorientare il nemico: se si fosse optato per un’azione di forza nei Dardanelli, l’azione sarebbe dovuta essere solamente dimostrativa, nell’eventualità in cui la marina turca avesse tentato la sortita, gli attaccanti si sarebbero dovuti impegnare a fondo; nell’Egeo centrale si sarebbero attaccati i forti di Smirne, Cesmè e Porto Sigri, nell’isola di Mitilene; per finire in riguardo alle Sporadi meridionali, si sarebbe dovuto procedere all’occupazione di un isola, senza specificarne una in particolare anche se sicuramente Rodi sarebbe stata la scelta migliore perché munita di porti e aeroporti. E’ importante sottolineare il fatto che le Sporadi meridionali non erano per l’Italia l’obbiettivo primario o centro di interesse commerciale e politico, ma solo una testa di ponte per organizzare frequenti scorrerie nel cuore del centro nevralgico ottomano. L’arrivo delle truppe italiane in quelle zone fu solo secondario alle operazioni militari in Tripolitania e Cirenaica.

A causa delle condizioni di salute non buon il comandante Faravelli, fu sostituito dal comandante Viale, mentre il comando della seconda flotta fu assegnato al vice ammiraglio Marcello Amero d’Aste Stella. Il piano d’azione del nuovo comandante in capo non era dissimile da quello di Faravelli, ma contemplava l’impiego delle siluranti, nell’eventuale azione di forzatura dei Dardanelli, l’azione italiana rimaneva comunque triplice: entrare nello stretto per silurare la flotta turca ormeggiata; far uscire la flotta turca allo scoperto dopo la provocazione da parte delle navi per poi dare battaglia; come ultima opzione nel caso in cui la flotta italiana venisse scoperta nello stretto e le navi turche non fossero uscite dallo stretto per lo scontro, si dava atto di forza rendendo insicura la sublime porta. La stima delle forze nemiche presenti nello Stretto era stata fornita in maniera abbastanza dettagliata dagli addetti militari di Ankara: 1000 uomini erano stati richiamati alle armi, 4000 dislocati nelle fortezze, 3500 a guardia delle coste, 2500 sul litorale verso l’Egeo. Per quanto riguardava l’artiglieria, erano stati localizzati 40 cannoni di calibro ignoto all’altezza dell’isola di Gallipoli, mentre 36 cannoni da campagna da 9 centimetri erano stati sistemati nei punti più adeguati del litorale. La difesa marittima era composta da un certo numero di torpediniere, supportate da diversi sistemi d’intralcio, come mine a contatto subacquee e reti d’acciaio[11]. Lo spostamento delle siluranti sarebbe stato coperto dall’artiglieria della flotta, la quale avrebbe martellato i forti disposti lungo il litorale, inoltre, data la segretezza dell’utilizzo di queste, il fuoco sarebbe dovuto servire a mascherare la loro partecipazione, così nel caso in cui avessero fallito, Roma avrebbe potuto negare la loro presenza nell’Egeo.Non era semplice mantenere la segretezza dell’operazione visto che tutta la flotta partecipava all’azione.

            Le operazioni ebbero inizio nella notte, tra il 17 e il 18 aprile 1912.

Come prima mossa, furono tagliati i collegamenti telegrafici, per la comunicazione triangolare Imbros, Lemnos e continente, da parte delle navi della 2° divisione della I squadra. La Filiberto, insieme al cacciatorpediniere Ostro, entrò nel canale di Samo bombardò una caserma, e silurò una cannoniera nemica. Le altre due divisioni entrarono in appoggio dei siluranti presso l’isola di Imbro, a poca distanza dall’imboccatura dei Dardanelli, in questo modo Corsi e Revel, sarebbero potuti intervenire nel caso in cui la flotta turca fosse uscita allo scoperto.

            Intanto nell’isola di Stampalia, l’ammiraglio Viale e il duca degli Abruzzi, incontravano il loro informatore che si sarebbe dovuto imbarcare come pilota della spedizione sul Nembo, indicato come Sig. M per aiutare il convoglio italiano nel tortuoso percorso dello stretto dei Dardanelli, visto che costui aveva lavorato come capitano della compagnia mercantile di Khediviale aveva memorizzato la rotta delle navi militari turche quando queste rientravano in porto[12].

            L’incrociatore duca degli Abruzzi, insieme alla 4° squadriglia cacciatorpediniere e la 2° squadriglia torpediniere d’alto mare oltre al Vettor Pisani erano in attesa dell’arrivo di un’altra squadriglia di cacciatorpediniere e un’altra torpediniere d’alto mare, le quali però arrivarono in ritardo. Fu così che Luigi Savoia e il suo capo di S.M., capitano di vascello Enrico Millo, dovettero operare con la metà dei mezzi previsti, riducendo così le possibilità di optare per i bersagli che avrebbero potuto dare un effetto maggiore all’impresa.

Si decise che l’azione sarebbe stata condotta da 8 siluranti disposte su due file parallele, composte dai caccia della 4° squadriglia e da 4 torpediniere. Il gruppo d’attacco si trasferì da Stampalia a Strati, nell’Egeo settentrionale. Le condizioni meteo non èrano affatto favorevoli, tanto che mantenere la formazione fu impossibile, l’agitazione del mare portò a due incidenti lungo la navigazione, uno tra il Turbine e il Nembo, l’altro durante la ritirata, tra il Perseo e il Procione. A causa dell’incidente, che avrebbe fatto slittare l’orario dalle 2 all’alba,  e della presenza di proiettori sulle coste l’operazione fu annullata.

Si passò così alla provocazione, sperando di far uscire la Marina turca allo scoperto, in modo tale da impegnarla poi in combattimento. La 2° squadra al comando dell’ammiraglio Presbitero, si fece notare presso l’imbocco dei Dardanelli, navigando su e giù ad una distanza di sicurezza di 10 km dalla costa.

La difesa costiera turca dalla sponda asiatica ( Orhaniè, Kum- Kalè) e dalla sponda europea ( Ertogrul, Sed Ul Bahr) era dotata di forti che potevano chiudere ogni accesso alla soglia dei Dardanelli, tramite il fuoco incrociato delle artiglierie. Le divisioni Corsi e Revel restarono fuori vista, protette dall’isola di Imbro, ma comunque pronte all’intervento.

            Il forte Orhaniè, ad una distanza di 8 Km riusci a colpire la Ferruccio. L’intera divisione allora aprì il fuoco. La battaglia incominciata intorno alle ore 11:00, terminò verso le 13:00 e poco dopo fu ordinato il dietrofront. Dalle navi italiane furono sparati 545 colpi, i forti turchi Kum Kalè e Sed Ul Bahr, furono gravemente danneggiati; 300 furono le vittime tra gli artiglieri della difesa[13]. L’operazione coincise con l’inaugurazione della nuova Camera della capitale ottomana, il sultano Maometto V rinnovò il mandato governativo a Said Pascià, il quale si sentì in dovere di comunicare la notizia dell’incursione italiana in sede d’apertura della camera[14].

Il messaggio che Roma volle mandare alla Turchia fu ben chiaro, Costantinopoli si rese conto che l’Italia non aveva limiti geografici nelle operazioni all’interno del bacino meridionale del mediterraneo, quindi l’obiettivo della missione fu parzialmente raggiunto. È interessante riportare anche la versione turca, che sostenne, come accadde in realtà, che fossero state le navi italiane ad attaccare per prime: tentavano di forzare lo stretto: furono respinte: una nave fu messa fuori combattimento: i forti turchi quasi incolumi […][15]ovviamente questa versione fu smentita dai testimoni presenti durante l’azione.

            La Turchia per suscitare una qualche reazione da parte delle capitali europee, drammatizzò la situazione, chiudendo gli Stretti. Il governo italiano sostenne immediatamente che non si èra trattato di un attacco ai Dardanelli, ma si era trattato di una dimostrazione navale da parte di unità da battaglia che avevano il compito di supportare un eventuale attacco di siluranti contro le navi turche.      

            Nonostante le parole dei capi di stato, contrari all’incursione italiana e al suo esito riguardo alla chiusura degli Stretti  e quindi al danneggiamento del commercio marittimo, Giolitti tenne duro. Infatti il capo del governo italiano, riguardo alla decisione di Costantinopoli di chiudere gli Stretti, sottolineò che le porte marittime potessero èssere interdette alle sole navi da guerra, inoltre si impegnava a non compiere in futuro azioni belliche nello stretto dei Dardanelli. L’Italia riteneva ormai che era necessario agire, senza dar conto più di troppo alla politica estera dei neutri. Davanti a tale comportamento, le pressioni delle potenze europee si spostarono da Roma a Costantinopoli, così che l’Impero ottomano dovette riaprire il passaggio alla navigazione il 2 maggio, nonostante gli italiani si trovassero ancora a Stampalia. In questo modo il governo Turco constatò la propria disfatta diplomatica.

            Roma aveva deciso di occupare le Sporadi meridionali, con il via libera della Triplice si dava il via all’occupazione «temporanea» di Stampalia, Scarpanto e Rodi. Il baricentro del conflitto si andava così spostando.

            La situazione di stallo permetteva all’Italia di prendere tempo e di decidere su come procedere la guerra, senza creare situazioni imbarazzanti a livello internazionale. All’interno delle forze armate, non vi era concordia di vedute dal punto di vista militare tra la Marina e l’Esercito, lo stesso Rocca Rey trasmise al ministro della Guerra, generale Spingardi, due promemoria: uno il 17 e l’altro il 20 aprile 1912, tra le sue righe riportava le motivazioni contrarie nel condurre operazioni nell’Egeo. Nel primo riferito all’isola di Rodi ricordava la sua distanza dal teatro libico, del fatto che è priva di risorse e di ancoraggi per la flotta e che per mantenere le truppe, i rifornimenti sarebbero dovuti arrivare dall’Italia, con un costo e un logorio dei mezzi eccessivo. Dal punto di vista militare e politico, riteneva che la difesa sarebbe stata quasi impossibile, vista la sua vicinanza alla coste turche e Costantinopoli non si sarebbe ritirata dalla Libia per un’isola che sarebbe sicuramente tornata sotto il loro controllo, vista l’indifferenza per una terra povera e strategicamente inutile.

Nel secondo documento sembra che Rocca Rey voglia sottolineare le responsabilità delle future azioni, del governo italiano ormai deciso a intraprendere una nuova campagna nell’Egeo, mantenendo così di conseguenza due fronti si rischiava di logorare le forze disposte in campo, per questo motivo vuole essere sicuro se le ragioni politiche per l’occupazione di Rodi, superino ogni ordine militare marittimo, per poi affermare come capo di stato maggiore di aver avvertito chi di dovere sulla sua contrarietà nell’aprire un secondo fronte.

 Al contrario, il generale Alberto Pollio si mostrò più propenso ad operazioni di guerra in quel settore anche se non si potevano calcolare le reazione che sarebbero giunte dalle città europee. Nel teatro libico, la Turchia decisa a non perdere il controllo delle due regioni, Tripolitania e Cirenaica, continuò ad alimentare la resistenza con il contrabbando di armi.Per questo motivo bisognava agire velocemente, la situazione in fase di stallo andava subito sbloccata. Fu così che Roma decise di portare la guerra il più vicino possibile alla “Sublime Porta”, per costringere Costantinopoli alla resa. Il contrasto al contrabbando turco fu un ulteriore motivazione per occupare le Sporadi meridionali[16].

            Il piano militare prevedeva un occupazione graduale delle isole, iniziando da quella di Stampalia, ottima base navale per la lotta al contrabbando turco, grazie alla sua posizione strategica, tra le Cicladi e Rodi, e per la presenza di due grandi baie, dove si potevano nascondere le navi della flotta. Ovviamente la sola Stampalia non sarebbe servita allo scopo politico-militare, di primaria importanza infatti risultava Rodi.

La relazione dello stato maggiore dell’esercito ne riassume le motivazioni «contrastare il contrabbando dalla Turchia alla Libia, … aggravare la situazione morale del nemico rispetto all’interno ed all’estero, … avere infine dei pegni a nostro favore in caso di trattative di pace»[17]. Anche l’ammiraglio Revel, trasmise alla Marina la sua opinione personale rispetto l’importanza dell’isola di Rodi e anche la necessità di penetrare a Stampalia e a Lero, da dove si potevano effettuare incursioni e raid sulle coste turche, e nello stretto dei Dardanelli.

Roma tenne in considerazione i suggerimenti di Revel, ma per quanto riguardava l’isola di Lero in un primo momento decise di non occuparla per evitare  problemi e reazioni da parte delle nazioni europee, le quali si èrano già rassegnate ad un eventuale operazione della flotta italiana in quel settore. Per questo motivo Roma puntò sull’isola di Rodi, per la quale aveva ricevuto semaforo verde da parte della Triplice.

Il piano per l’offensiva, prevedeva l’afflusso di uomini dall’Italia e dalla Libia. Due reggimenti di fanteria, 34° e 57°, si concentrarono a Tobruk, con due battaglioni del 4° bersaglieri, uno di alpini, due batterie da campagna[18], due da montagna, due sezioni mitragliatrici, in più gli addetti ai servizi e alle comunicazioni, per un complessivo di circa 9000 uomini, 20 cannoni e uno squadrone di cavalleria. Per sviare lo spionaggio internazionale ed evitare un rinforzamento turco nel settore in questione, l’azione militare nell’Egeo, doveva prendere il nome di Operazione Bomba. Bomba era una località nell’omonimo golfo di Tobruk, in questo modo si occultava il luogo dell’azione, facendo credere ai turchi che lo sbarco sarebbe stato effettuato in quel settore. Così la forza militare prese il nome di Distaccamento Bomba, èra fondamentale la massima segretezza per la riuscita della missione. Inoltre furono redatti i primi prospetti di previsione per la formazione di un distaccamento speciale che sarebbe stato costituito all’incirca da una forza di 3000 uomini e 350 quadrupedi dalla Cirenaica con in dotazione: viveri per un mese; acqua e legna per 15 giorni; 600 colpi per fucile d’ordinanza e per pezzo. In seguito si decise di aumentare la quantità delle unità previste, raggiungendo gli 8000 uomini e i 1000 quadrupedi.

            Al comando del corpo di spedizione fu nominato il tenente generale Giovanni Battista Ameglio che nel marzo precedente portò alla vittoria le truppe italiane uscite da Bengasi dopo un cruento scontro con le forze arabo- turche e nel combattimento di Suani el Rani conosciuto come quello delle Due Palme, conseguendo un importante successo, (oltre un migliaio i morti nemici). Per quanto riguardava la Marina, il comando fu affidato al vice ammiraglio Marcello Amero d’Aste Stella[19]. 

Le direttive trasmesse il 22 aprile dal generale Pollio al generale Ameglio lasciavano a lui e ad Amero libertà d’azione ma comunque consigliava la baia di Trianda ad ovest di Rodi come la località più opportuna per lo sbarco. Ma proprio per questo motivo si riteneva che il comando turco avesse fortificato quella spiaggia in previsione di un attacco italiano, così Amero incontratosi a Tobruk con Ameglio consigliò di scegliere un punto diverso da quello indicato da Pollio e suggerì la rada di Kalitheas non lontana dal centro della città di Rodi e opposta alla baia di Trianda. Si pensò anche all’azione di due sbarchi nelle due zone, ma poi tale idea fu subito accantonata era meglio non dividere le forze contro un nemico che si riteneva forte. Inoltre sempre per motivi di sicurezza Ameglio rimase a Tobruk senza poter effettuare alcuna ricognizione e ai giornalisti fu impedito di lasciare Derna per Tobruk, così questi non potevano riportare nelle loro testate i movimenti di truppe che avvenivano nella zona.

            Le forze dell’Esercito stanziate a Bengasi e a Tobruk, insieme alla Marina ebbero il via libera da Roma per dare inizio all’Operazione Bomba. Per mantenere segreta il più possibile l’operazione, gli equipaggi sarebbero stati tenuti all’oscuro sulla direzione della navigazione fino al punto in cui la flotta avrebbe virato a nord rivelando la vera zona d’operazione fissata per il 4 maggio.

Il 28 aprile la 2° divisione della 1° squadra composta dal Margherita, Filiberto, Brin e Saint Bon, prendeva possesso in maniera pacifica dell’isola di Stampalia per crearvi una prima base operativa. Alle ore 02:00, la flotta italiana raggiunse la zona predestinata per lo sbarco nella baia di Kaliteas a soli 10 Km sud da Rodi. Una volta riconosciuti i luoghi e essersi assicurati della mancanza di truppe nemiche, in poco più di due ore il corpo di spedizione fu portato a riva, utilizzando i mezzi di bordo e l’appoggio delle siluranti.

Il generale Ameglio si spostò verso nord tramite la Margherita fino al punto in cui erano visibili le truppe di terra, per una maggiore copertura da parte dell’artiglieria navale queste si spostarono più a nord, tra capo Voudhi e Rodi di fronte alle abitazioni e al capo Kum Burun, per la stessa funzione davanti al litorale nord occidentale si piazzarono la corazzata Regina Elena e l’incrociatore Coatit. Presso il colle Koskino e Argurù le truppe a cavallo di Ameglio si imbatterono in un primo scontro a fuoco contro circa 400 turchi ma la loro breve e debole difesa non arrestò l’avanzata italiana che a sera si trovava a mezzora di marcia dalla città di Rodi. Nel frattempo il caccia Alpino venne inviato ad intimare la resa al Valì di Rodi ma questo tentando di prendere tempo, sostenne che non aveva alcuna autorità o potere militare sulla guarnigione di difesa la quale si era ritirata in zone difensive lontane da luoghi abitati, rispettando così un ordine dall’alto. Per sbloccare la situazione il comandante Nicastro lo invitò a prendere una decisione o la resa o il bombardamento navale[20]. La mattina del 5 maggio si diede il via all’occupazione di Rodi, l’ammiraglio Viale inviò due compagnie da sbarco sotto gli ordini del vice ammiraglio Corsi mentre il comandante Ameglio entrava con le sue truppe senza incontrare alcuna resistenza, anzi queste furono ben accolte dalla popolazione greca ormai stanca della dominazione turca e speranzosa per una prossima annessione alla madrepatria. Alle ore 14:00 il tricolore sabaudo sventolava sul castello dei cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, indicando la presa politica e militare dell’ isola. Per mantenere l’ordine sull’isola evitando ostilità da parte degli abitanti, Roma istruiva Ameglio sul comportamento da tenere indicandogli di rendere vaghe le intenzioni politiche rispetto alla presenza italiana, quindi di non lasciar trapelare notizie che parlassero di una annessione o di un occupazione temporanea[21]. Intanto giungevano notizie  allarmanti sulla possibile controffensiva turca proveniente da Bodrum verso Rodi, appoggiata dai siluranti, per questo motivo si decise di inviare in avanscoperta il Coatit, accompagnata dal Lanciere e dal Duca di Genova in prossimità della costa nemica fino al parallelo di Smirne. Una volta tornati a rapporto confermarono che non vi era alcuna presenza dalla flotta nemica. Come previsto dall’Operazione Bomba, si andavano ad occupare le altre isole del Dodecaneso, l’incrociatore Pisa fu inviato a Calino; il San Marco a Lero, l’Amalfi a Patmo, il Duca di Genova a Calchi e ad Emporio; ovunque fossero presenti piccoli presidi turchi, venivano prima sostituiti dai marinai delle compagnie da sbarco che al oro volta venivano rimpiazzati dai Carabinieri o dai soldati dell’Esercito[22]. Le uniche forze nemiche presenti a Rodi èrano quelle della guarnigione della città che avevano il compito di proteggerla, ma come già detto in precedenza si erano ritirate presso la conca montana di Psithos all’arrivo della cavalleria di Ameglio. La decisione di ritirarsi in quella zona era di carattere militare vista l’impossibilità di difendere la città senza subire gravi perdite, in quelle zone montuose la conformità del terreno permetteva una maggiore resistenza in caso di attacco. Per questo motivo bisognava stanarli e costringerli alla resa completando così la conquista dell’isola. Secondo il comandante Ameglio per porre fine alla presenza turca nell’isola non bastava avanzare su Pithos e battere la difesa ma dovevano essere eliminati tutti i soldati presenti chiudendoli in un cerchio così da impedire la loro fuga dall’assedio in maniera tale da evitare la formazione di piccoli gruppi i quali probabilmente essendo esperti del territorio si sarebbero dati alla guerriglia. L’azione con manovra a tenaglia si sarebbe servita di tre colonne, la prima doveva spostarsi a ritroso su percorsi già battuti da Rodi verso Psithos, le altre due avrebbero chiuso il cerchio sbarcando nei punti da dove sarebbe partita la loro marcia verso il punto di contatto. La prima colonna da sbarco era composta dal 4° bersaglieri al comando del colonnello Maltini, una volta sbarcata sulla spiaggia di Cala Warda, Nord- Ovest, si sarebbe diretta a Kalapetra. La seconda unità da sbarco, composta dagli alpini del battaglione Fenestrelle sotto il comando del maggiore Rho avrebbe preso terra a Malona nel versante opposto, per poi spingersi su Plotania. Tatticamente queste due colonne formavano il lato Nord- Ovest- Sud del cerchio di Ameglio, la terza colonna quindi sarebbe giunta da Aphandos, versante Est, chiudendo così lo schema offensivo.

Le operazioni d’infiltrazione sulle spiagge iniziarono tra le 20:30 e le 21:00 del 15 maggio. Le buone condizioni del mare non crearono problemi per il trasporto delle due colonne, il Sannio trasportò il 4° bersaglieri nella spiaggia di Cala Warda, il Bulgaria sbarcò gli Alpini a Malona, il Filiberto invece si posiziono in prossimità del litorale sbarrando così la strada dell’altopiano ai turchi in ritirata. Raggiunte le posizione indicate già all’alba del 16 maggio, le truppe italiane avanzarono oltre la copertura delle artiglierie navali ingaggiando così le truppe turche forti di 1300 uomini e due pezzi d’artiglieria, gli scontri durarono fino alla sera quando lo stesso comandante turco resosi conto dell’impossibilità della vittoria chiese la capitolazione. Ma Ameglio per finalizzare la buona riuscita della missione inviò in ricognizione il caccia Lanciere a Trianda, per tenere sotto tiro la strada per Rodi, in modo tale da individuare eventuali disertori turchi[23]. Non essendovi tentativi di fuga o altre forze nemiche in stato difensivo, Ameglio accettò la resa del comandante turco che ebbe luogo alle 8:00 di mattina del 17 maggio. I prigionieri vennero imbarcati sul Sannio gli ufficiali sul Duca di Genova diretti a Palermo. Con la presa di Rodi si completava la conquista del Dodecaneso, con questo l’Italia assumeva il controllo del basso Egeo ora si poteva contrastare vivamente il contrabbando turco che riforniva la resistenza in Libia.

Una «minaccia senza precedenti» così definì nel suo rapporto il contrammiraglio Troubridge l’iniziativa sabauda nel teatro del bacino orientale del Mediterraneo. La presa del Dodecaneso infastidiva l’Inghilterra e la Francia, queste temevano che i loro interessi commerciali fossero compromessi dal passaggio dell’arcipelago alla Germania firmataria della Triplice, soprattutto se da base commerciale o di controllo, diveniva base navale fortificata. Riguardo al commercio la destabilizzazione dell’entrata italiana premeva sulle distanze dalle zone d’influenza inglese e francese, come il Canale di Suez, lo stretto dei Dardanelli, le isole di Cipro e Creta.

L’ammiragliato inglese suggeriva di evitare a tutti i costi l’occupazione italiana di qualsiasi isola dell’Egeo ed esponendo le motivazioni di carattere militare fece presente che la vicinanza tra la Libia e l’Egitto avrebbe permesso all’Italia di mettere in pericolo la dominazione britannica in Egitto e nel caso in cui i turchi fossero passati dalla parte degli italiani il trasporto delle truppe nella colonia inglese sarebbe stato fulmineo. Addirittura per evitare l’occupazione italiana permanente nell’Egeo fu suggerito un attacco alla sua Flotta nell’isola di Malta.

Londra impossibilitata nel condurre operazioni di pattugliamento su due zone distanti, ossia, Mediterraneo occidentale e Mediterraneo orientale, decise di togliere la flotta dal versante orientale e di concentrare le forze nella zona ovest direzione Gibilterra. Questa notizia di certo non fu ben accolta da Parigi che temeva di restare isolata nella morsa della Triplice[24].

Il forte sospetto anglo-framcese sull’occupazione italiana nell’Egeo ritenuta più permanente che temporanea, portò le due capitali a prendere le dovute precauzioni, Londra temendo un’azione navale nell’isola di Malta mantenne una decisa presenza navale nel mentre Parigi firmava un accordo franco-russo, permettendo così alla flotta francese di spostare la III squadriglia navale stanziata lungo la Manica nel Mediterraneo. La collaborazione navale anglo-francese nel mediterraneo iniziata il 20 agosto 1912, assegnava alla flotta inglese il controllo di Malta e del bacino orientale, alla flotta francese aspettava quello occidentale. Tale collaborazione venne poi formalizzata negli accordi del 10 febbraio 1913[25]. Roma di fronte alla situazione che si era creata, ossia al disaccordo internazionale in particolar modo di Francia e Inghilterra, affermò nuovamente che non si trattava di un’occupazione permanente dovuta a interessi commerciali ma l’occupazione era solo temporanea e sarebbe dovuta funzionare da deterrente con lo scopo di indurre la Turchia alla resa e al definitivo controllo della Tripolitania e Cirenaica.

Alla fine di giungo il C. S. M. Pollio vista l’indifferenza della Turchia dopo la perdita di Rodi, si sentì in dovere di redigere un promemoria nel quale suggeriva l’occupazione di Smirne, visto che l’Impero ottomano dopo la questione di Rodi non era ancora pronto a cedere. Secondo il generale anche se non facilmente l’azione era alla portata dell’Italia ma si trovava in pieno disaccordo con Giolitti.

            Sul fronte tripolitano, le truppe italiane erano ancora impegnate in importanti scontri portando avanti qualche successo locale. Nella zona di Homs ai primi di maggio, il generale Reisoli con due colonne al suo comando sconfisse gli arabo-turchi il 12 giugno alle montagnole rosse, dopo un contrattacco che permise loro di conquistare un fortino i turchi furono messi in fuga e un loro reparto con incarico pattugliamento lungo la strada per Homs venne annientato. Questi continui scontri in territorio libico diedero all’Italia la giustificazione per mantenere l’assedio temporaneo nell’Egeo anche se in realtà Roma non voleva affatto ritirasi dalla nuova posizione strategica, indispensabile per dare vigore e libertà alla nuova politica estera italiana. Ormai non èra più possibile tornare indietro[26].

Giolitti esasperato della situazione tentò un approccio diretto con l’Impero ottomano, scavalcando il Ministero degli Esteri attraverso l’ingegner Nogara. Nel luglio del 1912 iniziarono in maniera ufficiosa e nella massima segretezza i preliminari per le trattative di pace. Il problema che lasciava stretti margini di manovra alla diplomazia turca si trovava nei Balcani, se Costantinopoli avesse facilmente abbandonato le due regioni libiche, probabilmente si sarebbe scatenato un effetto domino nelle altre province aggravando così la fragile struttura dell’Impero. Per questo motivo le richieste da parte del senatore Said Halem alla delegazione di pace italiana composta da Volpi, Bertolini[27] e Fusinato furono esagerate in modo tale da richiedere più del tempo dovuto per la loro consultazione, sperando in una mutazione degli avvenimenti. Roma davanti al comportamento di Costantinopoli, ritenne opportuno attuare una nuova azione di guerra ancora più decisiva in modo tale da accelerare le trattative. Roma iniziò così a interrogarsi su come si sarebbe dovuta gestire l’operazione militare e quale Arma sarebbe stata più adatta. Vista la situazione nei fronti terrestri in maniera particolare lungo il fronte libico, l’operazione venne affidata alla Marina ma fu subito scartata l’idea di occupare un’altra isola dell’Egeo, anche se l’operazione sarebbe stata facilmente eseguibile, si rischiava di creare problemi in campo internazionale. Anche un operazione su larga scala venne scartata come quella proposta precedentemente da Pollio riguardo all’occupazione di Smirne. Un bombardamento delle coste avrebbe causato effetti indesiderati non solo in campo internazionale ma anche militare[28].

Per il raggiungimento dello scopo serviva un’azione straordinaria condotta all’interno dello stretto dei Dardanelli, tale manovra avrebbe colpito duramente la flotta turca li ormeggiata, la quale secondo alcune informazioni èra in assetto di guerra per condurre un attacco contro le posizioni italiane nell’Egeo. Una volta eliminata o danneggiata in maniera considerevole si sarebbe aggiunta un ulteriore pressione sul governo di Costantinopoli per porre la parola fine alla guerra.

La missione doveva avvenire nel massimo della segretezza, dovevano essere utilizzate piccole unità le quali si sarebbero poi dovute spingere all’interno dello Stretto senza prendere contatto con il nemico prima di essere giunte in profondità in modo tale da sorprendere i difensori. In appoggio all’unità d’attacco sarebbero stati inviati delle cacciatorpediniere, pronte ad intercettare siluranti turche in pattugliamento. La Vettor Pisani, Borea e Nembo sarebbero rimasti all’esterno dell’imbocco dello Stretto per eseguire eventuali azioni difensive. Come base operativa per lanciare l’attacco fu scelta l’isola di Stampalia che nel mese di giugno era stata riorganizzata e dotata di batterie, proiettori e stazioni di vedetta ma per maggiore sicurezza tra le isole di Miconi e Nicaria fu istituito un servizio di sorveglianza affidato ad unità veloci, tali precauzioni furono prese sempre in base alle notizie dell’imminente attacco turco. Anche nel caso in cui l’operazione non avesse portato al pieno completamento degli obiettivi prefissati dal punto di vista militare, l’azione avrebbe sicuramente influito sul morale del nemico, scoraggiandolo dall’intraprendere incursioni nell’Egeo. Le istruzioni del ministro recitavano:

«Per quanto finora inattiva e notoriamente in cattive condizioni di equipaggiamento e di morale, la squadra turca non ha cessato di rappresentare una minaccia alla nostra assoluta padronanza del mare, costringendo l’Italia a mantenere nelle acque dello Stato, in Libia e soprattutto in Egeo, dopo l’occupazione delle isole, un vasto apparato difensivo e numerose squadre in potenza, con grande dispendio e forte logorio di personale e materiale. Per porre fine a questo stato di cose e per inferire un colpo capace di fiaccarne la resistenza e di indurlo a più miti consigli, il Regio Governo consente di effettuare un attacco di siluranti contro la squadra turca, affidandone l’alta direzione al comandante della Vettor Pisani, capitano di vascello Enrico Millo»[29].

Il capitano di vascello Millo concordò con il comandante in capo Viale l’appoggio della prima squadra per il giorno dell’azione inizialmente prevista per il 16 luglio. Per condurre l’infiltrazione nello Stretto scelse le 5 torpediniere che riteneva essere le migliori: Spica, Perseo, Astore, Climene, Centauro, con i rispettivi comandanti: Bucci, Sirianni, Di Somma, Fenzi e Moreno. Millo salì a bordo della Spica[30]. In avanscoperta, come previsto dal piano, le cacciatorpediniere perlustrarono le acque di Capo Elles a caccia di siluranti nemiche. Le torpediniere invece lasciarono la notte del 17 luglio l’isola di Lero per ripararsi a ridosso di Strati, un’isola fuori dalle rotte abituali e priva di strumentazione per le comunicazioni ottiche e telegrafiche non lontana dallo Stretto. Una volta riposati gli equipaggi, alle ore 18:00 le siluranti presero il mare dando inizio all’operazione, il Pisani e le cacciatorpediniere li seguirono[31].

            Per ricostruire gli avvenimenti dell’incursione italiana avvenuta tra la notte del 18 e 19 luglio 1912, è interessante riportare le parole del capitano di vascello Enrico Millo, stilate nel suo rapporto a missione compiuta:

 

Il tempo era buono e calmo il mare; una leggera foschia all’orizzonte induceva a ritenere che dalle isole di Lemnos, Imbros Tenedos non ci avrebbero scorti sicchè con rotte appropriate navigammo per essere alle 22,30 al punto stabilito. Avvicinandoci ai Dardanelli, si scoprirono i proiettori della difesa esterna in azione, sia a Capo Elles (due) che a Kum Kalè (uno, ma all’uscita erano due), i quali ci permisero di ben identificare l’apertura dello stretto dove contavo di entrare, come avvenne, dopo la mezzanotte.

            Lasciata alle 23,30 la Pisani, dal punto anzidetto ho colla squadriglia d’alto mare diretto per imboccare i Dardanelli a dodici miglia di velocità; e per passare possibilmente inosservato, ho ordinato la linea in fila (Spica, Perseo, Astore, Climene, Centauro) constata poco dopo la corrente contraria di due miglia, aumentai la velocità a 15. Il proiettore di Kum Kalè teneva il fascio fisso, che attraversammo senza essere scoperti; quelli di Elles esploravano invece e ne avevamo oltrepassato il traverso quando quello più interno si fissò sull’Astore, seguendolo per qualche minuto. […] Fu allora, alle 0,40 circa, che Capo Elles con un colpo di cannone ed un razzo diede l’allrme, che fu ripetuto lungo lo stretto da segnali luminosi. All’allarme seguirono vari colpi di cannone, i cui proiettili caddero nelle acque della squadriglia.

            Poiché allora la difesa parve fiacca, decisi di continuare la ricognizione ed avanzare nello stretto per poi decidere il da farsi, a seconda delle circostanze, ed aumentata la velocità a 20 miglia, mi diressi verso la costa europea per evitare la zona d’acqua bombardata. Erano nel contempo entrati in azione numerosi proiettori. […]. Il proiettore di Smandare mi permise di costatare che la squadriglia navigava in ordinata linea di fila, a distanza serrata, e che malgrado il fuoco nemico, che successivamente investiva le siluranti, i comandanti conducevano bravamente le loro unità in precisa formazione. Proseguendo, fummo oggetto a tiri da parte della moschettiera e di altre batterie […]. La Spica arrivava, così, a grande velocità, alla punta Kilid Bar, accostando rapidamente dai due lati per non permettere al nemico un tiro efficace, quando […] rallentò rapidamente e si fermò in pochi metri; le eliche si fermarono di colpo. Il comandante della Spica subitò manovrò molto arditamente per liberarsi, riuscendovi dopo appena due o tre minuti. […]. Considerato il modo brusco col quale si fermò la Spica e l’arresto delle due eliche, sono indotto a credere che abbia investito dei cavi d’acciaio od altro materiale da ostruzione, dal quale con insperata fortuna riuscì subito a liberarsi. […] la batteria di Kilid Bar a tiro rapido aveva intanto aperto il fuoco sistematico simultaneo per zone a salve con alzi crescenti, inteso a colpire qualunque galleggiante fosse passato verso la punta […]. In simile condizioni, raggiunto lo scopo della ricognizione ordinatami, con nessuna probabilità di arrivare a silurare il nemico, con la certezza che le torpediniere al mio comando sarebbero state successivamente investite e distrutte dai proiettili nemici sparati a brevissima distanza e non avrebbe potuto proseguire verso le navi; poiché la squadriglia era ancora intatta le navi nemiche due miglia più a nord, […] ho allora giudicato inutile il sacrificio di uomini e di torpediniere […] credetti mio dovere di arrestare ricognizione e retrocedere.

            La squadriglia entrò tutta così nella zona minata, prendendo la via del ritorno sotto il fuoco di tutte le batterie e della flotta ed illuminata dai numerosi proiettori; ed è alla valentia ed arditezza dei comandanti che io devo se non avvennero investimenti tra le varie unità in così difficili frangenti […].

            Le avarie riportate dalle cinque torpediniere per il fuoco nemico sono di nessuna entità e si riassumono come segue:

            Spica: alcuni colpi nel fumaiolo, uno da 70 millimetri, gli altri di minor calibro, i proiettili non hanno esploso.

            Astore: due colpi di piccolo calibro nello scafo, uno da 57 millimetri circa, altri nelle sovrastrutture e nel materiale di coperta.

            Perseo: una diecina di colpi da 25 millimetri in coperta e nello scafo. Le altri siluranti nulla.

Nessun ferito e nessun morto […][32]

 

L’incursione della Marina nello stretto dei Dardanelli anche se mancò dello suo scopo principale servì a due obiettivi importanti: ad accertare con maggior sicurezza il sistema di difesa nemico; ed a togliere ogni dubbio che un azione del genere potesse dare risultati importanti. Sicuramente il risollevamento del morale, fu l’obiettivo più centrato. Il contrammiraglio Millo insieme ai suoi uomini ricevette molti elogi per come aveva condotto l’operazione, ci fu anche chi accusò il comandante di non aver compiuto fino in fondo la missione, ma l’ammiraglio Viale appoggiò incondizionatamente la decisione presa sul campo dal suo ufficiale. Per quanto riguardava la difesa turca, il comandante incaricato della difesa degli Stretti, Rusten Pascià, fu silurato dall’alto comando. La reazione delle navi turche fu limitata venne sparato qualche colpo ma non si lanciarono nemmeno all’inseguimento dei mezzi italiani in ritirata, anche i forti lungo la costa non reagirono nella dovuta maniera alcuni non aprirono il fuoco per paura di colpire la costa opposta. Ma questi non furono gli unici cambiamenti della leadership turca, oltre al comandante militare lo stesso governo turco si dimise, lasciando spazio ad un nuovo ministero indirizzato alla pace da Kiamil Pascià. Oltre all’incursione italiana, la Turchia si trovava sull’orlo di una guerra nei Balcani e fu anche per questo motivo che davanti all’opinione pubblica internazionale l’azione militare di Roma passò in secondo piano, anche grazie al lavoro dei diplomatici che seppero far passare l’incursione come una semplice azione dimostrativa e non belligerante per sollecitare Costantinopoli alla resa.

Il principale problema del governo turco era quello di non potersi mostrare   come un Impero al disfacimento, se questo avesse ceduto ufficialmente le due regioni libiche all’Italia i movimenti irredentisti balcanici avrebbero preteso lo stesso trattamento mutilando nel giro di poco tempo il grande Impero.

Le trattative di pace furono comunque riprese a Caux il 13 di agosto per poi essere spostate al 4 di settembre a Ouchy, con l’aggiunta di un ulteriore problema nella politica turca. I Jön Türk, (Giovani Turchi) che volevano sbarazzarsi dei “vecchi turchi”, influirono nella politica ottomana con le loro idee di riorganizzazione militare e occidentalizzazione e questi non avrebbero mai accetto la pace con l’Italia[33]. Intanto nell’Europa sud-orientale la Lega Balcanica (Regno di Bulgaria, Grecia, Regno del Montenegro, Regno di Serbia) si preparava per la guerra che sarebbe scoppiata di li a poco contro l’impero Turco. E fu proprio su questo ultimo punto che Roma ne approfittò, il capo del Governo ordinò alla delegazione italiana il 2 ottobre 1912, di presentare alla sublime porta un ultimatum di otto giorni per prendere una decisione, oppure l’Italia avrebbe ripreso a condurre operazioni di disturbo e contrasto nell’Egeo con ulteriore espansione del campo d’azione alla flotta navale e ai mezzi terresti dell’Impero, impegnati nel sedare le rivolte nei Balcani. Per il nuovo governo ottomano non era di certo una facile decisione per questo motivo cercò di prendere tempo e Roma offrì un’ulteriore deroga di cinque giorni, dopo la scadenza di questa la Marina avrebbe proceduto al bombardamento sistematico di Smirne e del nodo ferroviario di Dedeagatch, fondamentale per il trasporto di truppe e rifornimenti sul fronte greco- bulgaro.

Mentre a livello europeo Roma giustificò il suo comportamento inviando dei comunicati alle varie cancellerie e informandole sull’inevitabilità di azioni militari dalla quale si era astenuta fino a quel momento. Il 12 ottobre 1912 la flotta italiana era in preallarme tutti gli ufficiali con ordini di comando furono fatti imbarcare sulle loro navi equipaggiate e pronte per l’azione. Il 14 ottobre da Stampalia, la Marina incominciava a posizionarsi come previsto dal piano d’attacco, ma in quello stesso giorno i delegati turchi furono autorizzati a firmare l’accordo nei termini convenuti prima dell’ultima crisi. Nonostante ciò ad Ouchy la Turchia cercò sempre di ridimensionare quello che stava accadendo senza sbilanciarsi troppo concedeva l’autonomia alla Libia ma senza parlare di resa all’Italia. Inoltre fu proclamata l’amnistia per tutta la popolazione italiana presente nel Dodecaneso con l’aggiunta del ribelle arabo alleato italiano Said Idris, ribadendo così la sovranità ottomana sull’arcipelago, occupato temporaneamente dagli Italiani[34].

La caparbietà di Costantinopoli non si fermava a questo, il sultanato nominò il 16 ottobre 1912, Eddin Bey come suo rappresentante in Libia con il titolo di Naib ul Sultan, conferendogli il compito di proteggere gli interessi della sublime porta nel paese come se la sovranità sulle due regioni libiche dopo il decreto del 5 novembre 1911 e dopo un anno di guerra, fosse ancora sua. Il 17 ottobre 1912 a Roma, fu emanato presso la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia il regio decreto che conferiva ufficialmente il titolo di sovrano legittimo di Tripolitania e Cirenaica a Vittorio Emanuele III[35].

Ma la questione non si era ancora conclusa definitivamente, secondo gli impegni presi l’Italia avrebbe abbandonato l’arcipelago nel momento in cui sarebbero state ritirate le forze di resistenza arabo- turche dai due vilayet. Ma Roma e Costantinopoli non erano le uniche ad avere degli interessi nel preservare il proprio dominio nelle Sporadi meridionali. Con lo scoppio della prima guerra balcanica entrò in scena la Grecia, la quale dopo i primi successi militari risvegliò un risentimento nazionalista presso le popolazioni dell’arcipelago a maggioranza greca, creando le basi per una futura annessione alla madre patria, subito proposta da Londra e ben accetta da Parigi, d’altronde le due capitali europee preferirono appoggiare la Grecia piuttosto che l’Italia.   

Nel frattempo in virtù dell’articolo 2 del trattato di Ouchy (Losanna), firmato il 18 ottobre 1912, l’Italia continuava a mantenere la propria presenza nell’arcipelago lasciando la sorte dei sui abitanti nella mani dell’Europa solo dopo il completo ritiro ottomano dalla Libia. Ma come si sarebbe visto in seguito con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e i futuri successi della diplomazia italiana, il Dodecaneso rimarrà per altri 30 anni storia d’Italia.    



[1]A. Biagini, A. Carteny (a cura di), C’era una volta la Libia, Miraggi edizioni, Torino, 2011, p. 22.  
[2] G. Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino, 1973. p.73.
[3] Regia Marina, La Marina nella guerra italo- turca 1911-12, Ministero della Marina, Roma, 1912. p- 12.
[4] A. Biagini, op. cit., p.28.
[5] G. Rochat, op. cit., p. 83.
[6] S. J. Buchet, F. Poggi, Il contributo della Regia Marina nella guerra del 1911-1912 contro l’Impero Ottomano, U.S.M.M., Roma, 2012, p. 191.
[7] A. Battaglia, Il Dodecaneso italiano: una storia da rivisitare 1912- 1942.« Eurostudium», 2010. p. 9-10.
[8] Il IV Governo Giolitti durò dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914.
[9] La stipula delle Triplice alleanza (20 maggio 1882), fu caldeggiata dalla Germania, che già formava la Duplice con l’ Austria-Ungheria, con l’obiettivo di paralizzare la politica francese ed evitare un eventuale sodalizio italo-francese nel Mediterraneo. Il trattato di alleanza aveva scadenza quinquennale.
[10] M. Gabriele, La Marina nella guerra italo- turca, il potere marittimo strumento militare e politico (1911-1912), U.S.M.M., Roma,1998, pp. 154-155.
[11] M. G. Pasqualini, L’ Esercito Italiano nel Dodecaneso 1912-1943, Speranze e realtà, U.S.S.M.E., Roma 2005, p.20.
 
[12] Ufficialmente questa persona per l’ Italia non esisteva. Lo stesso Giolitti ne parla nelle sue memorie definendolo “assai dentro nelle cose della Marina turca”, G. Giolitti, Memorie della mia vita, Treves, Milano, 1922, p. 282. Questo personaggio viene indicato anche come signor Mayer. Cfr. S. J. Buchet, F. Poggi, op. cit., p. 195.
[13] M. Gabriele, op. cit., p. 159.
[14] A. Battaglia, op. cit., pp. 9-10
[15] E. Mercatali, Conquista della Libia, volume I, Sonzogno, Milano, 1912, p. 482.
[16] A. Battaglia, op. cit., pp. 13-14.
[17]Relazione breve dello Stato Maggiore Esercito Italiano.
[18]Il reparto di Artiglieria da Campagna nasce nel 1850, in seguito ad un massiccio riordinamento dell'Artiglieria Sarda. Quest'ultima in seguito al regio decreto emanato nel 1850 viene suddivisa in due reggimenti, un primo di "Artiglieria da Campagna" ed un secondo di "Artiglieria da Piazza   Al termine del secondo conflitto mondiale l'Artiglieria Italiana si disgrega, ed alla sua ricostruzione i reggimenti perdono definitivamente la denominazione "da Campagna".
[19] A. Biagini, op. cit., p. 29.
[20] M. Gabriele, op. cit., p. 165.
[21] M. G. Pasqualini, op. cit., p. 20.
[22]  M. Gabriele, op. cit., p. 166.
[23] Ivi, p. 167.
[24] Ivi, p. 169.
[25] Ibidem.
[26] A. Battaglia, op. cit., p. 20.
[27] Pietro Bertolini nel 1912 divenne Ministro delle Colonie sotto il Governo Giolitti IV.
[28]M. Gabriele, op. cit., p. 180.
 
[29] Ivi, p. 182.
[30] A bordo della Spica si trovava anche il misterioso signor M, il quale sosteneva di essere a conoscenza delle nuove posizioni della flotta turca e delle difese costiere.
[31] M. Gabriele, op. cit., p. 183.
 
[32] A. Battaglia, op. cit., pp. 20-21.
 
[33] F. Gramellini, Storia della guerra italo- turca, Aquacalda, Forlì, 2005, p. 222.
[34] M. Gabriele,op. cit., p. 195-96
[35] Ivi, p. 198.
 

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